
Le aziende tecnologiche e la globalizzazione
L’Italia pensi a una sua Silicon Valley senza commettere l’errore degli USA, che vi racconto con questa mia riflessione:
Le aziende tecnologiche sono una conseguenza del capitalismo globale finanziarizzato. Quelle americane hanno dimensioni enormi perché i grandi finanziatori devono poter recuperare gli investimenti in perdita e lo Stato deve rendere sempre più capillari le sue attività di difesa e intelligence.
Rimpicciolire le aziende americane del settore big tech sarebbe possibile solo limitando il potere di Wall Street e del Pentagono, quindi accettando un ridimensionamento del peso degli USA nell’ordine globale, che pare impossibile, vista l’ansia di Washington di continuare a contare, nonostante la Cina sia cresciuta velocemente nei settori della tecnologia, della finanza e militare. Il corona virus, che probabilmente provocherà un arresto della crescita cinese influirà in un ridimensionamento non trascurabile della seconda potenza economica al mondo che si ripercuoterà sui tassi di crescita del presente decennio che, per molti economisti potrebbe causare, unitamente ad altri fenomeni, una crisi mondiale.
Come le banche nel 2008 scatenarono una crisi mondiale, vi siete mai chiesti cosa potrebbe succedere se nei prossimi anni le big tech divenissero responsabili della crisi globale oggi anticipata dal corona virus?
Per capire meglio il legame tra aziende del settore big tech e finanza, vi racconto cosa sta facendo Goldman Sachs. La più grande banca d’affari del mondo sta lanciando una carta di credito con la Apple che nel 2018 è diventata la prima azienda al mondo quotata che ha raggiunto un valore di mercato di 1000 miliardi di dollari. Dietro questa notizia sensazionale si nascondono, però, alcune realtà inquietanti che vanno sotto il nome di operazioni di “ingegneria finanziaria” realizzate da questi colossi.
La Apple ha moltissima liquidità (secondo i dati più recenti, circa 200 miliardi di dollari) ma anche un livello altissimo di indebitamento (intorno ai 100 miliardi di dollari). Questo è successo perché, come molte multinazionali, anche Apple ha parcheggiato negli ultimi 10 anni buona parte della sua liquidità in portafogli obbligazionari offshore. Il gioco delle scatole cinesi cominciato dopo il 2008 quando le banche centrali abbassarono il costo del denaro e inondarono il mercato di liquidità con lo scopo di stimolare la ripresa dell’economia.
In realtà, se ne sono avvantaggiate solo le grandi aziende che hanno preso a prestito denaro a tassi bassi e lo hanno utilizzato per riacquistare le proprie azioni e distribuire i dividendi, rafforzando così i titoli in borsa e gli investitori, ma non l’economia reale.
Oggi Apple e Google hanno un valore di mercato di gran lunga superiore a quello delle maggiori banche e società di investimento. Avendo molta liquidità da investire, hanno fatto la parte delle banche, comprando grandi quantità di debito e sottoscrivendole come potrebbero fare JP Morgan o Goldman Sachs. Con una differenza però: dal momento che non sono regolamentate come le banche, è difficile tracciare esattamente cosa e quanto stanno acquistando. Se crollasse il castello, sarebbero guai per tutta l’economia, perché le big tech oltre a essere diventate l’industria più redditizia e meno regolamentata, hanno assunto un’importanza sproporzionata all’interno del mercato finanziario, detenendo titoli che, se venduti o declassati, potrebbero farlo crollare.
Questo è l’aspetto negativo del fenomeno Silicon Valley dove non ci sono solo le luci rappresentate dalle start up originarie bei garage dei veri innovatori, ma anche le molte ombre della finanza e del grande gruppo GAFA che ha pagato poche tasse, si è fatto finanziare le spese in R&D dallo stato americano e ha spostato all’estero dati e proprietà intellettuali, trovando scappatoie alle quali le aziende che intermediano beni materiali non possono appigliarsi.